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LA GRANDE BELLEZZA Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 27 maggio 2013
 
di Paolo Sor­rentino, con Toni Servillo, Sabrina Ferilli, Carlo Verdone, Galatea Ranzi, Isabella Ferrari, Roberto Herlitzka (Italia, 2013)
 
Sorrentino mira alto e colpisce basso. Sono passati dodici anni da quando ci permettevamo di richiamare all'attenzione dell'Italia cinematografica in altre faccende affaccendata uno dei suoi più brillanti esordienti, il Paolo Sorrentino di UN UOMO IN PIÙ. Galleria di perdenti, spassosa e affettuosa in presa diretta con l'eredità della commedia all'italiana, insolita e già forte in quel 2001 di uno stile coraggioso, incontenibile nell'emozione dei suoi attori (Toni Servillo, già allora...). Poesia, forse popolare, ma poesia. Del film ci si accorse alla prima volta di Sorrentino a Cannes, nel 2004 per LE CONSEGUENZE DELL'AMORE, straniante, grottesco, girato in parte a Lugano nelle zone grigie degli affari leciti, perfettamente posseduto nelle sue risonanze letterarie così pericolose da arrischiare il compiacimento dell'esercizio di stile. Poi, il riconoscimento internazionale a IL DIVO (2008) con il suo coraggio nella denuncia politica del contemporaneo, nomi e cognomi, profili e accenti identificabili, episodi documentabili. Senza rinunciare a spedire tutto quel malloppo di realtà nel proprio universo poetico degli ingrandimenti espressionistici, barocchi e grotteschi, magari felliniani.

Eccolo, Fellini. E, tralasciando THIS MUST BE THE PLACE girato nel 2011 negli Stati Uniti in uno stile e una tematica già pericolosamente sopra le righe, il confluire di tutto quanto precede in quest'ultimo LA GRANDE BELLEZZA. Dove Sorrentino sembra lasciare libero sfogo alla sua voglia di riferirsi ai massimi sistemi: la Roma che per ogni cineasta italiano ha significati imprescindibili (Fellini, ma Scola, Monicelli, Ferreri, pure Moretti e via dicendo). La Roma di LA DOLCE VITA, perché i due film sono legati da un doppio filo che sarebbe assurdo negare. La Roma con la sua bellezza enorme e la sua esausta decadenza, l'opulenza del patrimonio e il degrado della noncuranza. E Roma che così pericolosamente si avvicina allo stile, al modo di esprimere l'idea della bellezza e di corruzione della stessa da parte un cineasta indubbiamente provvisto di talento figurativo ma sempre più tentato dall'enfasi.

Cosa Sorrentino voglia fare di tanta grandezza è piuttosto chiaro: ricordarne i fasti ma stigmatizzarne l'uso, condividerne le lusinghe della società che la abita con occhio in definitiva divertito, ma disintegrandone con rabbia cinica la pigrizia e la vanità. Sfortunatamente, sono soprattutto i primi aspetti a riuscirgli, e non a caso; poiché tutto in cinema finisce per riassumersi in una questione di stile. E quello del regista sembra sempre più prigioniero di una sorta d'ingordigia magniloquente che assorbe lucidità, distacco e ironia.

Fin da quelle prime carrellate sui monumenti (certo, tecnicamente spettacolari, nelli'mplacabile perfezione dell'alta definizione) ai ripetitivi piani sequenza sull'umanità traballante in discoteca piuttosto che inamidata attorno ai banchetti presunti elitari; dalla sequela di citazioni letterarie e riflessioni filosofiche alle musiche liturgico-polifonico-gregoriane, lo sfondo è destinato a storie di alti prelati dediti alla gastronomia e nobili decaduti costretti a concedersi in affitto, intellettuali estasiati davanti all'artista che imbratta la tela a secchiate di vernice variopinta; e tutta una serie di personaggi che stenta a ritagliarsi uno spazio proprio .

Nelle vesti dello scrittore dall'unico romanzo ormai ridotto allo sconsolato vagabondaggio fra i resti di godurie non più eterne, Toni Servillo finisce per essere contaminato dall'inflazione di primissimi piani sulle rughe dolorose di una sua progressivamente immutabile espressione. Marcello Mastroianni, LA DOLCE VITA o OTTO E MEZZO si allontanano sempre di più fra situazioni, battute e allegorie più o meno riuscite. E con loro la malinconia e la lucidità tenera per dei valori e delle identità perdute, per un mondo in via di radicale mutazione che ha reso immortali, e così azzardati da accostare, quei sentimenti. Forse era meglio lasciare perdere.


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